L’Occhio, lo Specchio, la Felicità – 24

L’incontro con il proprio io è indispensabile alla vita. Senza un rapporto franco, affettuoso, vero, con il proprio io, non si inizia l’avventura gioiosa della vita.

È strano notare che, in una società come la nostra, piena di luci e di persone che si muovono con i mezzi più disparati; in una società determinata dal rumore e dal caos, manchi quello spazio di silenzio in cui l’uomo possa guardarsi in viso e chiedersi (leopardianamente): “a che tante facelle?”.

È strano notare come nel nostro mondo affollato di rapporti sempre connessi da un telefono sempre in tasca e internet sempre attivo, l’uomo viva una profonda solitudine che gli fa desiderare un silenzio sempre più lontano, quasi irrealizzabile; che gli fa desiderare persino la solitudine.

Egli percepisce la vacuità dei rapporti che intrattiene con i propri simili, anche di quelli che si definiscono affettivi.

L’uomo si domanda che rapporto ci sia (egli sente la presenza di una relazione) tra se stesso e l’infinito a cui l’occhio si volge mirando il cielo affollato di stelle luminose.

È possibile che – come Leopardi – nel silenzio nel quale lo specchio ci ha introdotti, ci si trovi ad invidiare le pecore: loro non provano il tormento causato dal porsi domande a cui sembra non si possano dare altro che risposte di dolore.

Mettendo da parte il pessimismo esistenzialista del grande Leopardi, tratteniamo il pensiero volto alle domande sul senso della vita, della nostra vita, che il silenzio del mattino inevitabilmente fa emergere.
Le domande sorgono in forma insopprimibile perché esiste un io al quale quelle domande corrispondono: “io” ho bisogno di condurre un’esperienza di vita che mi porti a capire sempre meglio la natura dei miei bisogni, la conoscenza di me stesso.

Le esigenze di bellezza, felicità, giustizia, non possono rimanere ancorate a una risposta sognatrice, a una realtà teorica che non sazia il cuore, non più sogno ma fiaba senza alcun fine morale.

A quelle esigenze – nell’ascolto continuo del proprio io – si affacciano risposte che non possono rimanere confinate nel pensiero: esse hanno necessità di essere verificate.

Le risposte impongono, proprio perché hanno la pretesa di essere concrete, una verifica altrettanto concreta nella vita.

Verifica è rendere vero, riscontrabile nel nostro agire/interagire quotidiano, il contenuto delle risposte: se vedo un piatto che si presenta appetitoso, devo assaggiarlo per verificare e conoscere se è anche gustoso; guardarlo e basta è sufficiente a confermare il suo aspetto ma non a qualificare la sua effettiva appetibilità.

Sperimentare nell’amore non l’egoismo ma il dono di sé; sperimentare nell’amicizia la solidarietà; sperimentare la generosità; sperimentare l’accoglienza al di là delle teorie, vuol dire dare il giusto gusto e senso alla vita, uscire, liberandosene, dalla palude dell’egocentrismo.

Frasi come: “io ho sempre sostenuto”, “io dico sempre”, “io ho sempre pensato”, “io mi sono sempre dato da fare”, “io ho sempre dato”, oppure: “io non ho mai chiesto niente”, “io non ho mai detto di no”, “io non ho mai maltrattato nessuno”, “io non ho mai mancato al mio dovere”; frasi come queste sono tristemente presenti in quasi tutte le nostre conversazioni.

”Io” al centro di tutto, un io che ha “sempre” e non ha “mai”, dà l’idea di un io nato sotto un cavolo d’oro tempestato di pietre preziose; fa pensare a una persona che quando parla tutti debbono tacere e prendere appunti; si immagina un io a cui tutte le organizzazioni mondiali debbano riferirsi, un io che si presenta come l’oracolo di Delfi.

Ma non ci siamo stancati di avere sempre il nostro io al centro e quello degli altri piazzati a far da contorno? Non ci siamo scocciati profondamente della parola “successo”?

Davanti allo specchio c’è un uomo e non l’icona di un dio di cui prima o poi il mondo, o almeno il vicino di casa, si accorgerà; davanti allo specchio c’è un uomo che nota con gioia un sorriso, un uomo attratto dal volto di un bambino che esprime una purezza che ha da lui essere riconquistata, un io che tende la sua mano in aiuto di un suo simile.

Sintonizziamo il nostro occhio a tutto il bello, buttiamoci dentro all’umana bellezza e non abbiamo paura di spenderci completamente per essa.

Il mio io ha desiderio di fare, di prendere parte della bellezza e non guardarla da lontano. Il mio io non vuole più stare da solo ma condividere con l’“io” degli altri la strada della bellezza. La bellezza è lo splendore del vero; diventiamo forti e stabili quando in noi non c’è altro desiderio che coinvolgerci nell’esperienza e nella costruzione di nuove forme di vita.

Non la vita che il mondo ci fa vivere ma una vita fondata da una compagnia di uomini che abbia lo sguardo orientato all’uomo, al saziare il suo bisogno di amore.

Nel nostro mondo dove uno solo di noi consuma in un giorno quanto un villaggio africano in un anno, in un mondo dove il nostro occhio è catturato da cose che si possono comprare e con esse ottenere l’interesse da parte di altri che, a loro volta, comprano; in questo nostro mondo l’”io” vive l’infelicità espressa in lamento.

Quanta gente al mondo sarebbe felice se avesse un po’ di cibo e se riuscisse a non vivere più nella paura? Invece chi guadagna 100 vuole guadagnare 110 prendendo 10 a chi guadagna 11. Tutto questo per credere, per autoconvincersi, di essere felici… ma quando?

Nemmeno se guadagnasse 200, sarebbe felice. Il guaio è che ci sono persone che guadagnano 10.000 e altre che muoiono di fame.

Tutto questo il nostro io lo sa benissimo e, se gli togliamo il bavaglio, grida quest’ingiustizia mondiale. Il grido del nostro io è passare al più presto possibile all’azione.

Ci si chiede: quale azione? L’azione di tutti i gesti della nostra giornata, la forza di un gesto umano (dovrebbe essere facile esprimerlo a noi umani) cambia solo un piccolo istante di vita ma subito si trasmette e si allarga divenendo universale

L’effetto di un gesto umano è fortemente contagioso, più di una vagonata di parole, come recita l’antico adagio: “verba docent, exempla traunt”

bambino che sorrideL’occhio che vede l’ingiustizia globalizzata, che fa dell’uomo, di ogni “me stesso” un ingranaggio dello squallido meccanismo del potere economico, spinge a reagire a passare dall’osservazione all’azione.
Non c’è altra via: per contestare il macinauomo del consumismo bisogna che si agisca secondo quanto e come insegna la natura. Siamo nati per stare insieme, costruire una società (dal latino societas, derivante dal sostantivo socius cioè “compagno, amico, alleato”); non siamo nati per rivaleggiare in tutto, non siamo nati solo per “competere”, per “emergere”

L’uomo è essere sociale, portato per sua natura a comunicare e condividere, magari anche la contestazione al sistema, renderlo compatibile con la natura umana.

Non esprime cultura per l’uomo chi condanna e basta, chi condanna e poi vive la propria vita secondo regole secolarizzate.

Non esprime vita chi bada solo al proprio colesterolo senza occuparsi chi del colesterolo non conosce nemmeno l’esistenza.

La vita vale se vissuta con l’altro, comunicandogli la verità della ricchezza che porta in se e che è patrimonio di ogni uomo e di tutti gli uomini; la gioia di condividere un po’ di se stessi con quell’uomo sconosciuto che prende a calci il proprio io perché incapace, perché sfortunato, perché solo, perché misero, perché ospitato in un corpo “brutto”.

L’esercizio dello specchio è duro; malgrado l’assenza di occhiali a specchio sul naso, non tutti riescono a bucare l’io di plastica che soffoca il cuore, l’io di plastica che ingabbia un cuore nato per essere felice.