DiSturbiVisivi – 11 – La Traduzione Visiva dell’Immagine

Non sono un’oculista né un esperto di neurosistemi visivi o neuromorfologia, né ho conoscenza approfondita di psicobiologia; tuttavia mi incuriosisce parecchio conoscere un po’ meglio, da un punto di vista funzionale, per quanto possibile, quali informazioni il nostro cervello dà alla nostra sensibilità emotiva per reagire a quello che vediamo.

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Photo credits: Dolphin Fantasy at Sea Paradise, Yokohama
Creative Commons © Kalandrakas | www.jessleecuizon.com

Affascinante è il tema della traduzione visiva. Accenniamo in sintesi il percorso compiuto dall’immagine dal punto in cui ha origine fino ad arrivare a colpire la nostra sfera emotiva. La natura, l’arte, quello che amiamo o che ci disturba non giunge direttamente al nostro cuore; il nostro cuore riceve, attraverso la vista, una rappresentazione del reale che, pur essendo fortemente dettagliata, è molto lontano dall’essere quello che è.

Proviamo quindi a seguire il tragitto che compie la bellezza anche solo per sommi capi dal momento in cui la incontriamo al momento in cui noi reagiamo a questo incontro.

Non sono interessato ad un approfondimento scientifico dell’argomento, che potremo capire meglio leggendo alcune parti presenti su questo stesso sito, ma vorrei esprimere alcune considerazioni sulla dotazione “ottica” che la natura ci ha donato.

L’immagine (il termine immagine è improprio ma lo usiamo per semplificare) prima di giungere alla retina, membrana situata al fondo dell’occhio, attraversa prima la cornea, poi l’umor acqueo, quindi supera l’iride (il colore degli occhi, verdi bellissimi, azzurri, neri che danno intensità allo sguardo è dato da questo…) al cui centro si trova la pupilla.

L’immagine giunge così al cristallino che, attraverso l’umor vitreo, la cede alla retina. Il volto dell’amata ha fatto un sacco di strada. L’immagine che la retina riceve però è bidimensionale, piccola, assai distorta e pure capovolta.

Se fosse questa la qualità dell’immagine, se non fossimo in grado di percepire le ulteriori informazioni, risultato di successive elaborazioni, credo che sarebbe ben difficile innamorarsi; di certo la storia dell’uomo sarebbe stata completamente diversa.

Della retina diciamo, semplificando, che è una membrana costituita da tre strati di cellule, il primo strato è formato da cellule chiamate fotorecettori, essi sono lì pronti a ricevere quell’immagine confusa e assai poco attraente, questi microscopici elementi sono di due famiglie diverse: una meno numerosa (tre milioni di esemplari), è quella dei coni, l’altra è quella dei bastoncelli presenti, uno più o uno meno, in cento milioni di unità.

I coni sono specializzati nel riconoscere i colori, i bastoncelli invece si occupano di registrare il movimento, le sfumature i contrasti tra le scale del grigio. Questi due prodigi ricevono molte informazioni e a loro tocca anche lo scarto di molte che sono inutili. Anche la loro distribuzione spaziale non è affatto casuale: ogni cono e bastoncello ha il suo posto da occupare.

Queste meravigliose cellule prima di veicolare le informazioni, nel loro processo selettivo, compiono anche un lavoro di trasformazione, potremmo dire del segnale ricevuto: l’energia meccanica, chimica, luminosa viene trasformata in un impulso elettrico di vario potenziale.

Questa prima parte della visione è chiamata fototrasduzione e, attraverso di essa, un segnale da luminoso è trasformato in un segnale chimico e quindi in segnale elettrico e passando da una fase all’altra avviene anche l’amplificazione del segnale iniziale.

Gli input elettrici vanno ad eccitare i successivi strati costituiti da cellule bipolari e cellule gangliari; questi neuroni integrano ulteriormente i segnali che provengono dai fotorecettori, attraverso il nervo ottico, giungendo alla corteccia visiva del cervello deputata all’elaborazione cognitiva.

Quindi a conclusione di una moltitudine di reazioni chimiche innescate da potenziali elettrici, e di produzione di enzimi generati da cellule di diverso tipo ecco che il sistema visivo consegna al nostro cervello un’immagine tridimensionale accurata e ricca di dettagli.

Possiamo osservare che, per quanto sia minuziosa e particolareggiata la nostra visione, noi non percepiamo né indirettamente, né tanto meno direttamente, un’immagine fedele della realtà.

Si potrebbe dire che il percorso, costituito dalle diverse tappe che l’immagine fa per diventare quello che noi vediamo, può simboleggiare il lavoro di interpretazione che noi dovremmo compiere sia pure con altri strumenti.

Un’altra considerazione che può sembrare banale è che le varie specie animali vedono tutte in modo diverso e, all’interno delle varie specie esistono alterazioni che fanno sì che esistano anche diverse patologie che conducono ad alterazioni della capacità e della percezione visiva.

Edwin Abbott Abbott (Londra 1838-1926) fu scrittore, teologo e pedagogo. Scrisse un racconto dal titolo: “Flatlandia”, si tratta di un’opera che non venne compresa al tempo in cui fu scritta, forse perché troppo fantascientifica; in essa si parla, per la prima volta nella storia, della quarta dimensione. Il successo dell’opera avvenne successivamente, man mano che la conoscenza della teoria della relatività di Albert Einstein si andava diffondendo e perfezionando.

Apriamo una parentesi parlando della stampa che si dedica alla salute, stampa che non conosce crisi: non c’è mensile, settimanale o quotidiano che non le dedichi uno spazio; poi ci sono le pubblicazioni divulgative con vario grado di specializzazione a cui si aggiungono tirature inferiori a cura di farmacie o ditte farmaceutiche.

Su questo tipo di stampa si leggono notizie in cui la ricerca scientifica e i suoi esiti vanno sempre più confondendosi con la fantascienza, dando vita a un nuovo filone: la medicina mitologica, inafferrabile, proveniente da luoghi e da persone irraggiungibili. Lunghi articoli, ricchi di particolari sui successi conseguiti proprio ieri, terminano rapidamente nella nebbia che avvolge fitta il chi e il dove sia possibile prendere contatto con i tanto decantati geni.

Ai tempi di Abbot una cosa che non si capiva rimaneva con il punto interrogativo fino a quando non arrivava qualcuno che sapesse chiarire o, perlomeno, che sapesse dare un inizio di risposta. Oggi sono molti quelli che scrivono sulla salute senza saper che dire; catturano con il titolo ricco di promesse e, dopo aver letto per dieci minuti o più, se si è un malato si sta peggio e se non lo si è, abbiamo appreso qualcosa di completamente inutile.

In certi casi, ci si dovrebbe limitare a parlare di acne, rughe, ciccia, calvizie spingendosi fino al meteorismo intestinale e, in casi più semplici, di calli o di flora batterica. Occorrerebbe essere più attenti e prudenti quando si parla della sofferenza dell’uomo e non trattare argomenti solo per riempire spazi di carta o di tempo.

Abbot, con il suo racconto fantastico a più dimensioni, ci dà un’ulteriore spinta ad intendere la vita, quello che seguiamo guidati dai nostri occhi, come un oltre, cercando di andare al di là, indagando sulla radice di tutto.

Io vedo solo alcune cose della realtà, vedo una bellezza e so che questa potrebbe essere ancor più bella se la indago nel profondo, dove non c’è nessun occhio che vi possa giungere se non quello interiore. Posso, alla stessa maniera, vedere al di là della bellezza l’inganno o, peggio, la trappola.

Abbiamo fatto solo qualche accenno alla complessità del processo del vedere: strutture anatomiche muscolari, vascolari, nervose, tra loro estremamente diversificate, concorrono a fornirci la visione. La teoria tricromatica, la teoria sulla visione dei colori, la teoria dell’opponenza cromatica, la teoria Retinex, la teoria della frequenza spaziale, sono elementi di conoscenza utili agli studiosi per capire, curare e correggere i difetti della nostra vista; noi conoscendo per sommi capi queste complessità, ci sentiamo spinti a spostare l’attenzione sull’oltre.

La natura è un mistero: questo è il mistero che ci interessa. Non ci interessa svelare il mistero di quel delitto o di quel fatto di gossip di cui si parla ovunque e senza sosta; all’uomo interessa il mistero dell’uomo, il mistero di cui è fatto, e non è certo con il microscopio elettronico che potremo riuscire a fare chiarezza: lo strumento di indagine è un altro.

Iniziamo da subito a intendere la bellezza e vederla come un segnale che indica la bellezza vera che sta oltre; seguiamo le indicazioni con cuore sincero: faremo un percorso lungo una linea retta e non descrivendo sempre lo stesso cerchio. Il nostro procedere avrà un senso, una direzione precisa; non fermiamoci al primo bello cercando di farlo nostro; non appropriamoci del cartello, così facendo è come se cogliessimo un bellissimo fiore: strappato da terra, dopo poco di esso non rimane niente, la sua bellezza non c’è più è svanita, né noi né alcuno potrà mai più goderne.

La vita è una lotta, ma non per guadagnare denaro o per trovare parcheggio o, sul lavoro per non essere defenestrati o con il marito per cambiare l’arredamento; la vita è una lotta perché tutto concorre a non farcela apprezzare pienamente, perché né televisione, né riviste, né cinema, né ipermercati o spiagge incontaminate ci diranno mai che tutto quello che propongono potrebbe non servire a nulla, che spesso ci tolgono energie e tempo.

Il mio io autentico non deve rimanere solo, deve rischiare, uscire all’aperto e, con occhio nuovo indagare la realtà oltre il visibile e l’apparente e, da questa percezione completamente diversa, intraprendere il proprio cammino dove potranno anche esserci spiagge e cinema, ma questi saranno strumenti e non fine o scopo ultimo.

La nostra società occidentale apprende prevalentemente da ciò che vede, mentre altre culture è da quello che ascoltano che imparano. Questo mi incoraggia nello scrivere perché in questo mezzo vi è una maggior intensità tra le varie forme di comunicazione verbale.

Se non siete spericolati e fautori dell’efficientismo moderno, che vuole che una persona al top, simultaneamente telefoni, scriva, legga, prenda il caffè e risponda alle persone davanti a lui, avete dato qualche minuto del vostro tempo, del tempo della vostra vita solo ed unicamente alle mie parole.

Si dovrebbe sentire sempre molto forte la responsabilità di togliere tempo all’altro, quando si parla e si scrive si sottrae tempo alla vita degli altri; quando si richiama l’attenzione su di sé ci si dovrebbe proporre, almeno come aspirazione, di offrire qualcosa di concreto e non di fare pubblicità a se stessi

Tutto quello che noi facciamo non ci lascia come prima, il tempo che passa non passa senza lasciare in noi una traccia profonda, il tempo ci allontana o ci avvicina alla gioia del vivere; la lotta sta nel cacciare lontano da noi tutte le proposte che non offrono garanzie sufficienti di utilità.

Questa è la lotta vera resistere alle seduzioni delle sirene che si offrono come portatrici di assoluto appagamento per ogni parte di noi.

Non abbiamo tempo da perdere noi, abbiamo ancora un sacco di strada da fare… noi!