Il Riccio… Eleganza Pungente. Porre Barriere all’Altrui Occhio Limita la Propria Capacità Visiva? – 20

Ecco un nuovo splendido esempio endemico di vista mal funzionante. Romanzo e film, ognuno nelle sue possibilità e prerogative, comunicano con estrema chiarezza, con ritmo costante, adatto al metabolismo di parole ed immagini, lo straordinario valore che la protagonista protegge.

Un film è un film, la vita dovrebbe essere diversa eppure quanto somiglia a un set cinematografico e noi ad attori che rappresentano un’idea, o peggio un’opinione, prima che una ricerca curiosa, attenta e instancabile di un significato.

Potrei dire che la protagonista nasconde la sua vera persona come si nasconde lo struzzo in una pianura, il suo camuffamento ha la stessa efficacia mimetica di quella del grosso pennuto alla quale (secondo il pensiero del volatile) dovrebbe associarsi e, nella realtà molto spesso si associa, la collaborazione di chi pur guardando non si accorge dell’enorme sedere che gli si pone maestoso dinnanzi.

Renée (così si chiama la protagonista custode del condominio di rue de Grnelle) è nascosta solo ad uno sguardo fortemente miope; in realtà ella è persona nientaffatto banale o insignificante.

La sensibilità è il valore che l’uomo più fortemente autocensura, sia in se stesso che negli altri; essa è vissuta spesso a livello sentimentale nell’accezione esclusivamente caramellosa, forse è considerata debolezza o addirittura fattore poco concreto per questa ragione credo sia posta in luce solo in occasione di un mal di denti o di circostanze analogamente “forti”.

La sensibilità nascosta non può essere coltivata e questo elemento ha fatto la fortuna di tutte le telenovelas a partire, mi sembra, da Capitol (352 629 puntate; ora interpretato dai pronipoti dei protagonisti di allora).

Sensibilità non coltivata che non riesce a porre in chiaro bisogni di corrispondenza più profondi, di conseguenza non si ha nessuna idea di come soddisfare la fame che fa brontolare continuamente la nostra anima.

Il valore di Renée è nascosto all’altro (“…mi burlo sottovoce nella mia interiorità inaccessibile a chiunque”) ed è nascosto, paradossalmente, anche alla stessa Renée. Credo che il valore che portiamo non possiamo conoscerlo senza viverlo, ne prendiamo coscienza inizialmente solo attraverso l’amore all’altro.

Affrontando alcune riflessioni credo si possa giungere, ognuno per la sua strada, a comprendere il perché l’uomo è così accanitamente attaccato, nella società, proprio nel suo valore più prezioso e delicato, aggredito proprio nella sua individualità; cercare di comprendere perché è così aspramente avvilito e ridotto alla pari di un animale (peraltro anch’esso fortemente violentato) da produzione e da consumo.
Renée, nel racconto, non è definita dall’immagine dello struzzo ma da quello del riccio (animale forse più carino, ma estremamente difficile da accarezzare).

Possiamo chiederci il perché di questa barriera impenetrabile che non vuole respingere ma ferire chi, incautamente, prova ad entrare in intimità. Forse si difende così perché se si venisse a sapere chi è veramente potrebbe perdere lo status di portinaia? Forse perché crede che nessuno meriti di conoscere la sua verità? Forse perché teme che l’intrusione dell’altrui naso nella sua vita possa distruggere il suo dorato rifugio? Forse perché si vergogna della sua stessa bellezza? Forse perché crede che la bellezza che coltiva non verrebbe compresa, anzi magari derisa?

Per non correre rischi altissimi di incomprensione diamo al mondo la bellezza che ci chiede, una bellezza acquisita/acquistata a fatica che scivola su di noi senza mai far parte di noi.

La portinaia tanto è intelligente, tanto è sensibile da architettare un personaggio, curato fin nel più minuto dettaglio; un personaggio scialbo da offrire ai ricchi condomini suoi datori di lavoro. Pettinatura, abiti, arredo della guardiola (tv sempre accesa sullo stesso insulso canale), gatto, lessico portinaio: Renée sviluppa la sua professione nel rispetto più assoluto dello stereotipo e del contratto di lavoro.

Renée è soddisfatta, il suo piano funziona, solo alla sua amica concede una parte vera di se; in quel luogo di amicizia e nel tempo impiegato a gustare un the l’attore si riposa di tanto in tanto.

La recita è perfetta ma del tutto inutile: Renée è smascherata al primo sguardo orientale di monsieur Kakuro Ozu che va ad occupare un alloggio resosi libero nel condominio (curioso notare che chi vede la maschera non nota la persona e chi nota la persona non vede la maschera).

A mio parere anche KaKuro esprime un’osservazione non del tutto esatta egli dice a Renée che non è vero che non è stata riconosciuta dalle sig.re Meurisse incontrate nell’androne di casa ma che, in realtà, loro non l’hanno mai vista: direi che quella è solo una parte di verità, l’altra parte è data da Renèe che ha fatto di tutto per non essere vista.

Il giapponese al suo arrivo attira l’attenzione di tutti scombinando il tran tran condominiale, la storia prende la fisionomia di una fiaba e noi l’accettiamo e la assumiamo come tale, non facciamo alcuna osservazione sulla paradossalità dei protagonisti perché alcune forzature sono indispensabili a farci vedere elefanti di cui potremmo ignorarne l’esistenza.

L’autore ha dovuto tirare in ballo la cultura orientale forse perché crede che i nostri occhi occidentali non siano in grado di perforare l’apparenza, e forse ha ragione; ma ci lascia una speranza: una bambina, di nome Paloma, arriva, un po’ per volta, a vedere bene, sia pure con l’aiuto dal sig. Ozu.

La bambina abita anche lei in rue de Grnelle, ama da sempre il Giappone; è figlia, ovviamente, di ricchi genitori ottusangoli ed ha una sorella maggiore anch’essa ottusangola; la piccola inizia a frequentare la guardiola perché lì riconosce esserci la pace che cerca da tempo e che non le riesce di trovare in nessun luogo del gigantesco e lussuoso appartamento.

Storia, come si diceva, estremamente paradossale ma chiarissima, bella e drammatica, si conclude con la morte della portinaia. La portinaia muore nel compiere un gesto d’amore, muore nel momento in cui stava per iniziare a vivere il rapporto ideale della sua ricca ma misera esistenza, oppure misera vita.

Renée non è affatto attenta a se stessa, ella muore per avvertire l’amico clochard del pericolo di essere investito da un’automobile.

Kakuro, sia pure provenendo praticamente da un altro mondo, stava al suo stesso livello di sensibilità (esempio di unità del genere umano): lei se ne va e lui resta, lei va via ringiovanita e lui resta nel dolore ma privo di qualsiasi senso di tradimento da parte della vita.

Ho parlato di rapporto senza definirlo rammentando le parole che Kakuro rivolge a Renée in occasione della cena consumata a casa sua: “Noi possiamo essere tutto quello che vogliamo”. Essere e volere; essere è decidere, volere è decidere. Sono parole prese dalla discarica del consumismo e ripulite alla perfezione; parole costituenti unicamente un suono, ora hanno anche un senso bello, profondo, libero e responsabile.

Un rapporto non deve essere necessariamente intimo per essere bello; nel sentimento dell’amicizia può vivere un grande amore: ma anche l’amicizia ha bisogno di una decisione (decidere: tagliare, fare una scelta); persino in un incontro imprevisto e fortuito, che magari non si ripeterà più nella vita, si può fare un’esperienza tale da cambiare l’esistenza.

Non riesco, per mancanza di spazio, a parlare anche di quel fenomeno che è la bambina (l’età è identificativa, rappresentativa, di un atteggiamento e non di fattore esclusivamente anagrafico) dove si esprime, nell’acerbità di un esistenza, tutta la volontà di scoprire, di portare alla luce, di rendere evidente, l’ipocrisia della società in cui vive.

L’imprevisto cambia l’esistenza dell’uomo, l’imprevisto atteso e accolto adeguatamente. L’imprevisto da non confondersi con il carpe diem.
Miseria e nobiltà cenano insieme e si confondono l’un l’altra; l’esigenza di giustizia, di pace, di verità, di amore, di autenticità, vengono condivisi in un rapporto solo all’apparenza impossibile: ne consegue l’assioma che il desiderio della bellezza autentica crea unioni altrimenti irrealizzabili.

Tutto si compie rapidamente anche se il lettore o lo spettatore non avverte l’incalzare degli avvenimenti, tanto il ritmo è “sereno”; manca completamente l’affanno e il ricatto del tempo che minaccia di mancare. La storia si svolge rappresentata in dettaglio: sia il racconto che il film curano il particolare, descrivono in modo magistrale l’attenzione, il timore, lo stupore dei protagonisti.

Kakuro segue la sua intuizione con dolce determinazione perché sa che la portinaia può dargli un po’ di quella ricchezza indispensabile alla vita, che possono venire anche da un breve dialogo o un semplice sorriso.

La portinaia è dotata di uno spazio pubblico che sottolinea e rafforza il suo ruolo e uno spazio privato accessibile solo a lei e al suo gatto; nello spazio privato vive il suo vero io, continuamente alimentato dall’arte.

Chi inganna il riccio? La massa miope, gli inquilini ricchi sì di soldi ma più ancora ricchi di se stessi; la misura del proprio io inizio e fine di ogni cosa. Nelle persone che gravitano attorno a Renèe non c’è spazio né per Renèe nè per nessun altro.
La storia è piena di solitudini, cuori solitari, cuori pieni di niente e cuori che contengono desiderio di vita, cuori che cercano.

La cataratta virtuale trae la sua origine dall’atteggiamento che si ha di fronte al reale, la realtà la si può vivere con stupore perché è sempre nuova, sempre diversa da come potremmo immaginarcela, sempre migliore.