DiSturbiVisivi – 17 – Il Bello nella Palestra

Proseguendo sulla riflessione su “la bellezza e noi” dove abbiamo accennato alle attenzioni che dedichiamo o non dedichiamo al nostro corpo, all’immagine che decidiamo di attribuirgli, al modo con cui lo presentiamo agli altri.

Sono di spunti ricavati dall’osservazione della realtà che incontriamo tutti i giorni; realtà che ci riguarda da vicino. Ciascuno, guardandosi attorno e guardando se stesso, può fare le sue osservazioni.

Oggi sappiamo che aver cura della nostra pelle è assai importante; la pelle è l’involucro del nostro corpo; rappresenta uno scudo protettivo da aggressione di patogeni in grado di apportare danni assai gravi all’intero nostro organismo.

Un esempio di cura semplice e fondamentale per la nostra pelle è il bere (acqua) e non sottoporsi con eccesso ai raggi del Sole; la pelle – sottoposta sia a disidratazione che all’azione dei raggi solari – invecchia rapidamente, rinsecchisce, perde elasticità e forma, sul nostro viso rughe profonde come solchi.

Quindi si prende la tintarella a scopo di bellezza, magari si beve anche poco ed ecco che in capo a qualche anno si acquista l’aspetto affascinante di Matusalemme. Mi chiedo se e come si riflette quando si decide di far qualcosa per se stessi e con quale criterio scegliamo quale tipo di cura utilizzare e quale obiettivo ci si ripromette di raggiungere.

Lasciare il nostro aspetto fisico, abbigliamento compreso, allo stato brado è una scelta, chi lo fa solitamente pensa che la natura non abbia bisogno di aiuti, che la natura provvede da sè ad ogni bisogno: la natura si autoregola, meno si fa e meglio è.

Come contr’altare c’è chi pensa che la natura non sa far nulla da sè e quindi occorre prendere in mano la situazione del proprio fisico in tutta la sua vastità. Così asfissia il corpo con prodotti “curativi” di ogni genere. Abbigliamento fatto per il 90% di accessori di tutti i tipi e monili ad “alta visibilità”.

Avrei dovuto parlare di “modus operandi” in questi tempi è un’espressione di grande effetto… pazienza, ho perso l’occasione.

Oggi vorrei parlare del nostro corpo inteso come apparato locomotore, così mi offro l’occasione per mettervi a parte delle mie recenti esperienze di tipo atletico.

La prestanza del fisico è considerata da molti assai importante e – per i motivi più diversi – per tale ragione sono molte le persone che frequentano le palestre; l’apparato muscolare può tonico, una massa muscolare più potente significano salute e valore aggiunto ad una personalità a cui difficilmente si riesce a resistere…

Era tempo che notavo il mio fisico prendere, un po’ alla volta, la forma del barile; negli ultimi tempi lo sgretolarsi rapido del fisico ha imposto alla mia volontà la ricerca di un rimedio utile ad arginare tale degrado.

Devo confessare che l’attività fisica più intensa che praticavo avveniva al mattino quando percorrevo le strade attorno a casa mia per cercare il posto dove avevo parcheggiato l’automobile la sera prima.

Dal sedile della macchina a quello dell’ufficio a quello di casa con le gambe sotto il tavolo ad esercitare i miei muscoli più attivi, vale a dire quelli che concorrono alla masticazione: questi sono senza dubbio i muscoli più allenati e robusti che posseggo.

“Devo andare in palestra!” Dopo una riflessione durata otto anni, la storica decisione.

Ecco che “un bel giorno”, mi sono spinto, anzi direi trascinato in una piccola e semplice palestra vicino a casa. Ricordo bene quel giorno, uscii di casa con la mia vecchia sacca da palestra recuperata dal baule dei cimeli, corredata del kit completo per attività fisica.

Percorrendo la strada che conduceva alla palestra cercavo di darmi un certo contegno, la sacca sulla spalla faceva di me uno vero sportivo. Ebbi qualche problema con la spalla, essendo leggermente spiovente faceva scivolare la sacca lungo il braccio; a questo problema trovai subito una soluzione inclinando la schiena di 45° nella direzione opposta. Non faceva molto “atleta” ma così la sacca non scivolava più.

Con una certa fatica riuscii a superare la rampa di una ventina di gradini che separa la strada dall’ingresso della palestra; giunto in cima apro la porta e vedo una bella ragazza che sembrava attendere proprio me.

Credo di non averle fatto una buona impressione perché mi ci volle un quarto d’ora per recuperare fiato sufficiente a pronunciare qualche monosillabo.

La ragazza mi chiese premurosa se avevo bisogno di aiuto (forse intendeva il 118) ma, appena fui in grado di parlare le dissi di essere lì per iniziare subito la frequenza a quel luogo. Per un attimo mi sembrò che volesse dissuadermi dalla decisione poi credo che la sua mente andò alla “crisi” e mi indicò lo spogliatoio.

Una volta superato il trauma dello spogliatoio dovuto ad armadietti assai originali che, diversamente da tutti gli armadietti del mondo che sono fatti di un’anta dritta, questi presentano una protuberanza alternata una in alto e una in basso. Se scegli quella in alto aprendo lo sportello te lo dai in testa, se scegli quella in basso te lo dai sulle caviglie.

Dopo la prima botta compresi l’utilità di un numero considerevole di feltrini piazzati ad ogni spigolo e mi considerai fortunato per non aver preso la botta ante feltrino: in quel caso la mia esperienza di neo atleta sarebbe finita prima ancora di cominciare.

Calzate le scarpe adatte (credo), pantaloncini e maglietta, mi dirigo verso il centro dell’arena dove era ad attendermi una sorridente istruttrice; le è stata sufficiente una breve occhiata e già dalla sua espressione potevo leggere con chiarezza un marcato scetticismo, sembrava pensare: “un fisico così è assolutamente irrecuperabile”.

Ma un sorriso non si nega a nessuno e, a un caso così grave, si dedica con generosità, il migliore dei sorrisi possibili.

Senza scomporsi la ragazza mi dirotta, ipso fatto, verso la sala attigua dove stava per iniziare un corso che, a suo dire, potrebbe essere proprio adatto a me; senza fare alcuna obiezione varco la soglia della sala e mi trovo in uno spazio ampio con pavimento in legno e attrezzi vari disposti lungo la parete più stretta, uno specchio enorme e impietoso copre tutta la parete lunga di fronte alla porta di ingresso: impossibile non vedersi e, tantomeno, nascondersi.

Non so cosa si faccia la dentro ma so con certezza che, di qualunque cosa si tratti, non sarò capace di farla. I partecipanti sono tre e tutte donne, difficilissimo passare inosservati. Arriva anche l’istruttore (fortunatamente maschio) che mi invita a prendere una specie di sgabello largo e basso e porlo davanti ai piedi, il terrore per quanto potrà accadere porta le mie pulsazioni a 200.

Mi guardo attorno e mi chiedo che cosa ci faccio io lì; mi chiedo se era proprio il caso di prendere una decisione così precipitosa senza rifletterci anche un po’ di più di otto anni: sono convinto di aver commesso un tragico errore. Mentre mi concentro sull’elaborazione di una strategia che mi consenta una elegante ritirata, parte la lezione, musica a palla si inizia…

Cosa dovrei fare mi è chiaro da subito: imitare l’istruttore che fa dei movimenti strani salendo e scendendo dal gradino; la musica sembra nascondermi e, dopo qualche istante di esitazione, libero i miei freni inibitori, indosso l’abito della libellula e mi do a quello che scoprii in seguito chiamarsi step.

Mi fosse riuscito di fare al contrario di quello che faceva l’istruttore sarei stato perfetto, cercando di riprodurre i suoi movimenti credo di aver causato una serie di piogge intensissime (non ancora cessate) per spiegare le quali stanno ancora lavorando scienziati climatologi di fama mondiale.

Dopo trenta secondi di ballo di san Vito, inzuppato di sudore, non distinguo più la destra dalla sinistra e non riesco a contare fino a due, mentre l’istruttore (essendo molto più bravo di me) conta fino ad otto; dopo un minuto iniziano i capogiri e devo fare la prima pausa; a tre minuti dall’inizio le gambe tremano, quelli che dovrebbero essere i muscoli delle gambe sono contratti da crampi che stanno ad indicare che non prevedevano che tra i loro compiti ci fossero anche i movimenti come quelli che stavo loro ordinando.

L’istruttore è indulgente, mi incoraggia, mi invita – non senza che un velo di viva preoccupazione sulla mia sopravvivenza fisica passi dal suo volto – a non esagerare in quanto gli inizi devono essere sempre molto graduali. Io penso che se non esagero, e anche di parecchio, fatti i primi passi, potrei dedicarmi solo a doccia e sauna.

Trascorsi una trentina di minuti, c’è una pausa che interpreto come la tanta agognata fine della lezione. “30 minuti: strano, così pochi. Sono stato fortunato, forse riesco ad arrivare a casa con le mie gambe!”. Tempo di iniziare a girare i tacchi sento l’istruttore che invita a prendere bilanciere e tappetino: inizia la seconda fase della lezione. Mezz’ora a cercare gli addominali, i pettorali, i bi, tri e quadricipiti che avevo perso di vista da tempo.

La lezione non so come, e non voglio saperlo, finisce dopo 60 minuti tondi, tondi.

Frastornato, per non dire massacrato, riesco miracolosamente a trovare la porta per uscire dalla sala. Appena fuori, mi viene incontro il viso preoccupato dell’istruttrice che mi dice che per oggi può bastare e mi indica gentilmente la  strada che porta allo spogliatoio, lì trovo ad attendermi una panchina apparentemente priva di pericoli: sarà un’altra trappola per saggiare l’abilità sportiva? Supero la risposta e mi accascio alla ricerca dei miei parametri vitali.

Credo di aver suscitato una certa impressione tra gli addetti perché ogni tanto si affaccia alla porta dello spogliatoio un istruttore accampando una scusa, credo che si tratti di pretesti per accertarsi che mi trovi ancora in vita. Una residua facoltà di pensiero mi dice che mi sono divertito molto e vergognato poco.

La palestra è il luogo dove il corpo si esprime; nel suo muoversi libero, manifesta parte del carattere e della personalità. Non si può capire tutto di una persona che frequenta una palestra, ma si possono avere indicazioni sull’altro, si possono fare supposizioni che via, via, incontro dopo incontro, si possono arricchire. L’occhio non mente e in palestra non mente neppure il corpo.

In palestra logicamente non si può stare fermi, come può accadere nella quasi totalità delle situazioni, ma si agisce, ci si muove, ci si dà da fare per uno scopo. In palestra si prende l’iniziativa per raggiungere uno scopo chiaro. Lo scopo è sempre avvicinarsi alla bellezza della vita nel senso più ampio del termine, anche quando lo scopo è la salute, man mano che lo si raggiunge, si fa spazio e si ingenera nella persona la bellezza del sorriso e dell’ottimismo.

La mia palestra mi piace: per questo la definisco mia; si fanno “proprie” le persone e le cose che ci appaiono chiare, che si rendono spontaneamente accoglienti, prive di ambiguità, ambienti e persone a cui si può corrisponde con completa reciprocità.

Il rapporto con l’ambiente e le persone che lo determinano è simpatico, libero, schietto, autentico. Ho conosciuto persone disponibili al dialogo e alla battuta priva di secondi significati; non ho incontrato persone selettive, irraggiungibili.

Mi attira la palestra, mi interessa il rapporto che si realizza con gli altri e tra gli altri, con chiunque altro; l’individuo lì si esprime, non può non uscire allo scoperto. Forse in palestra è più facile, è inevitabile, esprimere chiaramente se stessi oppure quello che si vorrebbe essere.

La bellezza non è data solo da un fattore estetico; decisivo per la bellezza è l’armonia tra la nostra azione e la radice del nostro essere: radice dalla quale il nostro io trae quell’alimento che è il senso che diamo alla nostra vita, al nostro esistere. La bellezza che si fonda solo sul fattore estetico parla a noi e al mondo a cui si propone per un solo breve istante, trascorso il quale o si ripete o tace perchè non ha più niente di nuovo da dire.

L’occhio collegato al sentire del cuore, qui lavora, lavora; l’occhio in palestra ha tanto lavoro da fare… si allena anche lui.

Scusate ma rimango ancora un po’ seduto sulla panca dello spogliatoio, la testa gira e le gambe tremano, le righe a mia disposizione sono esaurite, ma ancora tanto da dire c’è n’è…